Come -penso- chiunque sia del mestiere, nutro un grande rispetto per i taccuini. Non li considero solo uno strumento di lavoro per fare le brutte copie, ma uno spazio vitale e libero, tutto da utilizzare a sentimento e da indagare a posteriori. Io stessa li uso continuamente e senza dubbio li sponsorizzo (o impongo, nel caso in cui si tratti di student* dei miei corsi) a chiunque voglia avviare un percorso artistico. 

Il mio utilizzo del taccuino è così assiduo che lo considero ormai una relazione, in quanto tale soggetta a periodi up e periodi down. Nei periodi down mi si vede girare senza pace, sfogliare in continuazione le pagine e borbottare la tipica frase “sto litigando col taccuino”: provo a disegnarci sopra ma mi viene tutto senza senso, non mi ci trovo, non riconosco il segno, non vedo vita, chi sono io e cosa sto facendo, crisi personale e artistica, alè, tutto è perduto.

Proprio in questi giorni sono reduce da uno di questi litigi.
La buona notizia è che tutto si può risolvere. L’altra notizia, non necessariamente cattiva, è che per risolvere il litigio bisogna capirne la radice.
Solo che non sempre il pensiero fa clic in maniera ordinata, anzi, a
ssurdo come a volte le soluzioni arrivino da input completamente casuali -e qui potremmo aprire la grande e condivisa parentesi sull’importanza di fare le cose più disparate durante le crisi artistiche, ma forse è meglio un’altra volta, comunque pensateci-. 
Quest’ultima volta insomma è stato buffo: ho cominciato ad afferrare un capo del malessere durante il saggio del corso di pole dance alla sagra di paese, mentre fissavo
 l’insegnante intenta a fare una dimostrazione; ho seguito il bandolo della matassa e più tardi, mentre ero da sola non sulla spiaggia ma quasi e ascoltavo “Mare mare” di Luca Carboni, il pensiero ha fatto clic.
E mi è venuto da scrivere questo:

Quando uso il taccuino capisco quello che ho scritto solo dopo averlo scritto. 
Sono giunta alla conclusione che stavo trattando il taccuino come un prodotto finito (ecco un altro tema che varrebbe la pena approfondire!) e non come uno spazio sperimentale. 
Avevo paura di giocarmi male le sue pagine e, di conseguenza, ero estremamente cerebrale nell’approccio al disegno: mi imponevo di pensare dettagliatamente alla resa finale prima di appoggiare la penna sulla carta, in modo da impaginarlo al meglio secondo un’estetica comune e condivisa. Ogni tratto era diventato una prova d’esame perché doveva venire benissimo al primo colpo. 

Avevo perso il mio spazio libero cercando di farlo diventare qualcosa di esteticamente, immediatamente, canonicamente appagante.

IL PACIUGO

Poi è successo un piccolo incidente: ho portato il taccuino in gommone con me e… l’inchiostro non waterproof usato qua e là si è sciolto, pasticciando alcuni dei disegni sui quali avevo investito più energie e ansia. Invece di sbroccare, però, mi sono sorpresa a fare spallucce e parlare di imprevisti come parti integranti dei taccuini; anzi, mi sono detta, sarebbe stato più divertente raccontare il motivo di quel paciugo. Singolare come dopo l’incidente i disegni mi sembrassero persino più interessanti e pieni di anima.

Il giorno dopo, per fregare l’ansia e rieducarmi al potenziale fallimento, ho preso un altro quaderno (uno dei quattro diversi sketchbook che mi sono portata dietro, che non si sa mai) e sono andata al mercato a disegnare cose senza aspettative precise.

Ho sbagliato l’ombrellone 3 o 4 volte, si vedono le righe; qualcosa è venuto storto, qualcuno si è spostato, è giustamente tutto caotico, perché così è il mercato del mercoledí e così voglio disegnare io sui taccuini. Sbagliando. Accroccando, abbozzando, improvvisando.

Un figlio che si sposta e una tazzina da studiare

Studiando, certo, e cercando di riordinare la realtà secondo la propria personale interpretazione perchè è un po’ questo che fa il disegno, ma lasciando anche spazio all’inverosimile, al margine.

Sai che novità, mi si dirà: da che da che mondo è mondo si teorizza sull’importanza dell’errore, perché sbagliando si impara, e cadi e rialzati più forte eccetera. Io qui, però, non vorrei nemmeno fare la morale, perché in questo caso non è stata una lezione da imparare: è stata proprio una necessità. Un bisogno, tanto quanto per me è un bisogno disegnare. 
In queste necessità il taccuino non è il fine, ma il mezzo: come un piatto per mangiare o un bicchiere per bere, che mica si pretende di mangiare o bere senza sporcare nessuna stoviglia.

Nel corto circuito di ansia da prestazione v/s necessità che mi ha travolta, il compromesso che (per me) ha funzionato è stato usare altri supporti e riarrangiare poi tutto con colla e appiccicamenti.

Eventualmente, poi, c’è anche la post produzione… Nel caso in cui si voglia stampare -ad esempio- una raccolta <3

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